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ETICA IN DEMOCRITO

10 agosto 2009
Antichità
Democrito nacque ad Abdera intorno al 460 a.C., e morì in tarda età dopo un’esistenza spesa nella ricerca scientifica. Le testimonianze sulla vita, alcune certamente leggendarie, mettono in luce il suo lungo vagabondare (pare sia stato in Egitto, in Persia e addirittura in India) e il suo immenso saper

CAPITOLO 1

 

 

DALLA TEORIA DELL’ τομος ALLA

FONDAZIONE DI UN’ ETICA.

 

 

Democrito nacque ad Abdera intorno al 460 a.C., e morì in tarda età dopo un’esistenza spesa nella ricerca scientifica. Le testimonianze sulla vita, alcune certamente leggendarie, mettono in luce il suo lungo vagabondare (pare sia stato in Egitto, in Persia e addirittura in India) e il suo immenso sapere.

Dei suoi numerosi scritti, ordinati da Trasillo nel I secolo d.C. in tetralogie, sono rimasti molti frammenti, assai inferiori tuttavia a quello che doveva essere il corpus democriteo; sappiamo che si occupò di matematica, di fisica, di astrologia, di morale. Le opere più importanti sono: Il grande ordinamento, Il piccolo ordinamento, Sull’intelligenza.

Il lungo arco della sua vita fa di Democrito un contemporaneo di Socrate e di Platone; eppure non troviamo cenno del suo pensiero negli scritti platonici, né egli sembrò segnare in modo determinante, come Anassagora, la cultura ateniese.

Nel suo girare da una terra all’altra è vicino agli itineranti sofisti e come loro sembra professare una sorta di cosmopolitismo; ma la sua problematica è assai diversa, legata com’è alla ricerca naturalistica, che egli porta a un grado di alto rigore. È da ricercare probabilmente qui la ragione dell’abbandono cui il pensiero democriteo fu soggetto per molti anni: il suo inflessibile ideale scientifico non rispondeva alle esigenze di una problematica più decisamente volta all’analisi dell’uomo e della società, che il pensiero sofistico e socratico andavano affrontando in quel periodo, sotto l’urgenza delle questioni politiche dell’Atene del tempo.

Il pensiero di Democrito sarà invece discusso da Aristotele, con cui il tema della ricerca naturalistica acquisterà nuovamente importanza; ed è significativo sottolineare come, al di là delle divergenze profonde che dividono i due filosofi, Aristotele lodi Democrito per l’intransigenza del metodo e della ricerca:

“In generale poi nessuno rivolse la sua meditazione ad alcun problema al di là dell’aspetto superficiale delle cose, tranne Democrito. Questi sembra essersi occupato di tutti i problemi e si distingue per la guisa del procedere”1.

Democrito afferma che i due princìpi fondamentali con cui spiegare l’universo sono il pieno e il vuoto, cioè l’essere e il non essere (secondo una problematica ormai assunta in modo definitivo dal pensiero parmenideo). L’essere sono gli atomi, costituenti ultimi dell’universo, indivisibili, di numero infinito, dotati di movimento naturale. Muovendosi nel vuoto, gli atomi, danno origine alle cose; a causa del loro eterno movimento e del loro numero infinito, si formano contemporaneamente infiniti mondi, tutti differenti; la distruzione di un mondo avviene per collisione, quando uno di essi si abbatte su un altro.

Per Democrito gli atomi sono dotati di grandezza e di forma; gli aggregati degli atomi sono diversi, e danno origine a cose distinte, proprio per la loro disuguale forma geometrica e grandezza (Democrito parla di atomi sferici, oblunghi, concavi, convessi, grandi, piccoli, ecc.) e per la posizione che assumono aggregandosi:

“Essi infatti (Leucippo e Democrito) considerando gli atomi come materia dei corpi, fanno derivare tutte le altre cose dalla differenza degli atomi stessi. Le differenze sono: misura, direzione, contatto reciproco, che è quanto dire forma, posizione e ordine”2.

Ciò significa che gli atomi in se stessi differiscono appunto per la forma e la grandezza e, a seconda della posizione e dell’ordine in cui si dispongono nel movimento, danno origine a cose diverse.

Il movimento degli atomi infatti non ha alcuna causa esterna, è un dato di fatto. Democrito non ha alcun bisogno quindi di porre, come fece Anassagora, un principio che spieghi il movimento: tutto avviene necessariamente secondo una legge naturale, che non richiede una spiegazione ulteriore.

La sua posizione è la più chiara espressione di ciò che sarà detto meccanicismo materialistico: tutto quanto esiste è materia (gli atomi) ingenerata e indistruttibile, le cui trasformazioni sono dovute alla necessità intrinseca della sua composizione, secondo leggi necessarie. L’ordinamento del mondo proposto da Democrito esclude ovviamente qualsiasi finalismo (concezione in base alla quale il mondo fisico è ordinato secondo fini, cui i vari elementi per loro natura tendono); coerentemente con la concezione materialistica, il filosofo presocratico afferma che la sensazione, attraverso la quale cogliamo i dati sensibili, avviene per mezzo del contatto diretto; flussi di atomi partono dagli oggetti e colpiscono i nostri sensi, determinando così le immagini (eidola) delle cose stesse. Da questo incontro nascono quelle che in seguito saranno chiamate “qualità secondarie”, cioè il gusto, il sapore, il colore, ect.

Le qualità sono infatti per Democrito una modificazione della sensazione, non una proprietà dell’atomo, che possiede solo forma e grandezza, che saranno invece definite “qualità primarie”:

“Opinione è il colore, opinione è il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto, dice Democrito, ritenendo che tutte le qualità sensibili, ch’egli suppone relative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggregazione degli atomi, ma che per natura non esistono affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce, amaro: infatti l’espressione ‘per convenzione’ equivale, per esempio, a ‘secondo l’opinione comune’ e a ‘relativamente a noi’, cioè non secondo la natura vera delle cose”3.

Il pensiero dipende direttamente da queste modificazioni fisiche: “Si vede chiaro che egli fa derivare il pensiero dalla mescolanza degli elementi del corpo, ciò che è forse anche logico per lui, per il quale l’anima è corporea”4. Tutto è materia per Democrito, e quindi anche

l’anima che egli, secondo la testimonianza di Aristotele, sembra identificasse con l’intelletto.

Da questa visione del mondo, ordinato secondo necessità e la cui legge è penetrabile dal pensiero umano, nasce un’interpretazione serena della vita dell’uomo singolo e una pacata riflessione sul valore della vita associata. Basti pensare che Democrito viene rappresentato dalla tradizione come il ‘filosofo che ride’.

La morale in lui assume un tono elevato e si esprime in profonde sentenze, degne di stare accanto a quelle di Socrate. Fin dall’antichità ciò ha stupito parecchi studiosi che, fermi al loro pregiudizio secondo cui al materialismo debba per forza corrispondere l’edonismo in morale, dove per morale viene intesa la dottrina in cui l’unico ideale della vita siano i piaceri dei sensi, hanno considerato l’etica democritea alla stregua di un qualcosa di estraneo al sistema.

In realtà essa si lega fermamente alla mentalità razionalistica che pervade tutto l’atomismo ed è una forma di razionalismo morale, che elegge la ragione a giudice e guida dell’esistenza e fa dell’equilibrio e della misura il supremo ideale della condotta. Per Democrito il bene più alto è la felicità, però questa non risiede nelle vanità mondane, ma nell’interiorità dell’anima. Con la presente prospettiva non sono certo gli averi e la gloria a rendere felici, ma solo la giustizia e la ragione in quanto “fama e ricchezze senza mente non sono beni utili”5, come asserisce lo stesso filosofo.

Tant’è vero che là dove la ragione difetta, non si sa godere della vita e si è in preda a turbamenti irrazionali, desideri impossibili, continue insoddisfazioni, invidie e paure. Per gli uomini la gioia spirituale nasce dalla misura e dalle proporzioni: “se si passa la misura, anche la cosa più gradevole ti diventa sommamente sgradevole”.6

 

 

CAPITOLO 2

L’etica democritea

 

Fra i tanti problemi che si pongono a coloro che si accingono a studiare Democrito, andando oltre la questione dell’autenticità, vi sono certamente quelli sui frammenti attinenti l’etica. Il primo elemento da porre in evidenza è se queste osservazioni debbano essere considerate come un complesso di sentenze sulla realtà dei fatti, meditazioni staccate e indipendenti l’una delle altre oppure un complesso organico di dottrine etiche e in rapporto con il sistema atomistico.

È certo che gli antichi avvertirono la novità di Democrito principalmente nel suo sistema fisico e forse nella soluzione prospettata al problema della conoscenza, non curandosi troppo della parte concernente l’etica.

Il punto di partenza per intendere il pensiero del filosofo di fronte ai problemi etici e politici credo si debba cercare nel fr. 245 7:

“Le leggi non impedirebbero a ciascuno di vivere come più gli piace se gli uomini non si facessero del male a vicenda: è l’invidia, infatti, la causa della discordi”8.

Da ciò risulta come per Democrito le leggi, restrittive della libertà individuale e personale, siano in un certo senso un ‘male’ indispensabile, necessario: esse limitano la libertà a tutti per assicurare, a ciascuno, benessere, incolumità e quindi la possibilità di vivere nella società in mezzo agli altri uomini.

In aggiunta, se gli ultimi citati non si facessero male reciprocamente, asserisce il presocratico, le leggi non impedirebbero a chiunque di vivere com’egli voglia.

Si inizia a profilare una netta contrapposizione tra l’essere e il dover essere che è una delle basi del pensiero etico dell’autore considerato.

Le regole nei riguardi del dover essere sono un male e il sapiente, che vive secondo il dover essere, deve non obbedire alle leggi, ma condurre una vita secondo libertà.

Se esistessero solo i sapienti non vi sarebbe bisogno di leggi per gli uomini. Il filosofo dice: “Ogni terra è aperta al sapiente: infatti di un’anima perfetta patria è l’intero universo”.9

Questo è l’ideale di Democrito: per lui se gli uomini fossero tutti saggi, agirebbero ciascuno secondo virtù, quindi tutti seguirebbero le medesime regole e non vi potrebbero essere, tra loro, contrasti. Ciò pone un problema. L’Abderita sa che gli uomini non sono così. La legge solo “a chi le obbedisce mostra la sua virtu”.10 È necessario procedere per gradi. Prima di

 arrivare alla sapienza bisogna imparare ad essere un buon cittadino. Lo Stato diventa nel sistema di ragionamenti democritei una sorta di “male necessario”. Sarà logico attendersi che il filosofo prediliga il regime democratico; in tal senso è eloquente il frammento 102 (Diels-Kranz): “bella in ogni cosa è l’uguaglianza: non mi garba né l’eccesso né la mancanza” incorniciando termini che in greco s’impregnano di un significato fondamentale ai fini del pensiero di Democrito e sulla sua concezione etica: τò ισον (l’eguaglianza), περβολή (l’eccesso) e λλειψις (la mancanza). L’esatta combinazione di questi componenti fonda il primo grande approccio alla cosiddetta felicità democritea.

Poi, in tutto un altro ordine di idee, Democrito afferma: “colui che vuole raggiungere la tranquillità d’animo (εθυμία) non deve fare molte cose, né pubbliche né private”.11 Egli fissava come fine nella vita proprio la tranquillità dell’animo, che chiamava anche lo star bene (εεστώ)12. L'eutimia

 (composto di eu- = buono e thymos = animo) è uno stato d'animo di serenità o neutralità, una sorta di pacifica soddisfazione, di appagamento interiore tipico di chi si mantiene lontano dai timori.

Democrito è certo che solo chi è saggio sa “ragionar bene, parlar bene e fare quel che deve” (fr. 2). Il dotto sa inoltre che “la saggezza che nulla teme merita qualunque cosa perchè è preziosissima” (fr. 216). Attraverso la continenza infatti appare che “la mente è ormai educata nel suo intimo e radicata in se stessa […] è inoltre abituata a trarre le gioie da se stessa” (fr. 146).

Democrito
Democrito

 

Inizialmente parlava per l’uomo comune, colui che dev’essere un buon cittadino; negli ultimi frammenti citati prende la parola ‘il filosofo’ che deve essere appunto un sapiente: ecco perché due linguaggi diversi, due prototipi diversi: uno per il mondo dell’essere, l’altro per il mondo del dover essere .

Il suo ideale è il βίος θεωρητικός (vita teoretica, comprendente diverse virtù) nell’astensione dalla vita pubblica e dall’attività politica, ma non ignora che gli uomini nella loro totalità non siano sapienti né possano diventarlo. Vi sarà sempre una vastissima parte dell’umanità che avrà bisogno delle leggi.

Egli mira alla felicità attraverso la virtù: interpreta il contrasto tra νόμος (intelletto) e φύσις (natura) e non pensa allo stato come a un assoluto, ma solo come mezzo, come una via alla virtù (cfr. fr. 181).

Sia la filosofia sia la politica mirano alla virtù; si nota la superiorità della prima sulla seconda perchè il filosofo esorta e convince, mentre il politico, e quindi la legge, impone e costringe.

Chi è stato formato dal filosofo non farà mai il male perché la sua coscienza glielo vieta. Ecco perché si trovano, per così dire, due serie di frammenti in Democrito: una esortante gli uomini a rispettare la legge affinché rispettandola conseguano anche il proprio utile; l’altra a fare il proprio dovere, sempre e comunque, e a provar vergogna del male compiuto o anche solo desiderato, davanti a se stessi, prima che davanti agli altri.

Posta e accettata questa distinzione non sarà più necessario giustificare la motivazione che porta Democrito a parlare degli dèi in frammenti morali, dal momento che nel suo sistema filosofico difficilmente trovano posto.

Egli nega l’esistenza degli dèi eppure il frammento 217 dice: “agli dèi son cari soltanto quelli che hanno in odio il commettere iniquità”, il numero 234 “gli uomini con le preghiere chiedono agli dèi la salute del corpo” e il frammento 175 “sono gli dèi che agli uomini, sia un tempo sia ora, danno tutti quanti i beni”. Nomina senza possibilità di equivoci le divinità quali li concepiva la coscienza popolare: ma ne parla, appunto, agli uomini comuni, dai quali Democrito pretende solo che diventino buoni cittadini, non saggi filosofi.

Per comprendere ciò basta riflettere nuovamente sul frammento 217: a colui che si esorta a fare il bene asserendo alla successiva conquista poi della grazia divina, non ha senso poi dire che deve fare quel che deve perché lo deve e di vergognarsi davanti a se stesso di fare del male. Questo ideale, severo e rigido, dettato da una morale autonoma, non ha bisogno della sanzione divina per mostrare la sua efficacia al sapiente. Invece per l’uomo comune l’argomento della giustizia divina risulta davvero utile; lo stesso Democrito osserva che gli uomini, che non hanno raggiunto il livello di sapienza che la filosofia è in grado di donare, ma che tuttavia hanno coscienza di fare il male, si tormentano tutta la vita pensando all’aldilà (cfr. fr. 297). È chiaro dunque che il citato frammento 217 faccia leva su questa paura, tanto più che Democrito ritiene che la fede nell’esistenza divina sia nata proprio dal terrore che certi fenomeni naturali suscitavano nei primitivi.13

L’Abderita pone un confronto continuo tra l’uomo comune e il sapiente distinguendo a seconda della natura di ciascuno: “per natura il comandare spetta al migliore” (fr. 267) e: “le cose belle le conoscono e bramano coloro che ad esse sono naturalmente inclinati” (fr. 56).

Nonostante ciò, come chiarisce il frammento 183, “non il tempo insegna la saggezza, ma l’educazione impartita quand’è conveniente impartirla e la natura”. Accanto alla già citata φύσις, il filosofo pone la τροφή, l’educazione, asserendo anzi che: “sono più quelli che diventano saggi grazie all’esercizio che quelli tali per natura” (fr. 242); infatti “l’insegnamento con le fatiche da sostenere, porta a compimento le cose belle” (fr. 182).

Questi frammenti, mentre riaffermano in maniera sicura le differenze naturali tra uomo e uomo, dimostrano la serena fiducia che il filosofo ripone nell’opera della ragione, che sa educare e trasformare, quindi la fiducia che il filosofo ha in se stesso. È una fede davvero illuministica, nelle forze e nelle possibilità della ragione umana, che induce Democrito ad affermare: “la natura e l’educazione sono simili. Infatti l’educazione trasforma l’uomo e trasformandolo lo rende quale la natura non l’aveva fatto” (fr. 33).

Egli ha anche consapevolezza della difficoltà estrema che si frappone al compimento di una tale opera e quindi formula, in un certo senso, due programmi: il massimo e il minimo. Il massimo è l’ideale del cosmopolitismo, per il sapiente, il minimo è l’ideale dello Stato democratico, per il buon cittadino. Abbiamo visto che il collegamento tra un ideale e l’altro è teoricamente creato nella figura del filosofo che è anche educatore; la possibilità di coesistenza del filosofo “saggio” e dell’uomo comune, buon cittadino, è data dal concetto della solidarietà, nel senso di concordia.

L’osservazione attenta e acuta della realtà doveva mostrare a Democrito, però, che al mondo non ci sono unicamente i sapienti e i buoni cittadini, ma ancora una terza categoria di uomini, che il filosofo chiama ανοήμονες, gli stolti.

Per lui sono quelli che “regolano la loro condotta secondo i benefici della sorte” (fr. 197), per “imparare ad essere moderati quando la sventura li colpisce” (fr. 54) perché “per gli sciocchi non la ragione, ma la sventura è maestra” (fr. 76).

Essi “vivono senza godere della vita” (fr. 200), perché “è per paura della morte che desiderano vivere” (fr. 205) e anche “invecchiare” (fr. 206). Da queste considerazioni ne consegue che: “bramano vivere una lunga vita senza saper godere di una lunga vita” (fr. 201) e “desiderano ciò che non hanno, mentre non sanno trarre frutto da ciò che hanno, anche se esso sia più vantaggioso di quello che avevano prima” (fr. 202).

Democrito diceva inoltre che “il vivere male e non saggiamente né moderatamente né piamente non è un viver male, ma un lungo morire” (fr. 160). Gli stolti dovrebbero quindi capire che “meglio è per gli stolti esser comandati che comandare” (fr. 75); ma “i malvagi quando assumono cariche pubbliche, quanto più sono indegni di assumerle, tanto più sono negligenti e si gonfiano di stoltezza e sfrontatezza” (fr. 254).

Il filosofo definisce poi i rapporti che il saggio può avere con lo stolto; in una parola: nessuno. Il primo non degnerà il secondo neppure di uno sguardo: “dei biasimi dei malvagi il buono non tiene conto” (fr. 48).

Anche il buon cittadino non deve macchiarsi di colpevoli patteggiamenti nei riguardi dei malvagi, dice Democrito nel frammento 262; bisogna essere molto severi e applicare contro di essi le leggi in tutto il loro rigore.

“I malvagi sono come le fiere e i rettili, che tutti sono pronti ad eliminare” (fr. 259): perciò è necessario fare la stessa cosa nei riguardi degli uomini malvagi, con tutti i mezzi leciti e legali (fr. 260). In linea generale “bisogna a tutti i costi impedire l’ingiustizia” (fr. 261); non cooperare mai con chi compie l’ingiustizia (fr. 38), né mai voler compiere l’ingiustizia (fr. 252).

Il cittadino deve comportarsi così non perché la legge glielo ordina, ma perché così esige il suo personale interesse (fr. 215).

Davanti a queste considerazioni si può ben notare come ripetute asserzioni tese a etichettare l’etica di Democrito come non sistematica e non coerente con l’atomismo siano false.

Per meglio spiegare, l’uomo democriteo è una sorta di microcosmo, qualcosa che in sé ripete e rispecchia l’ordinamento dell’universo, cioè una gerarchia di valori: la stessa tripartizione valida per le facoltà dell’uomo, sussiste anche nell’umanità che risulta formata dal complesso di tutti gli uomini.

L’etica democritea rivela così di essere fondata su un principio analogo a quello che è fondamentale per la sua filosofia. Nell’umanità si distinguono i sapienti, i filosofi, a cui spetta la funzione di educare e guidare spiritualmente il resto dell’umanità; gli uomini rispettosi della legge, ovvero i buoni cittadini che comandano e sono comandati; e infine, gli stolti, per i quali è meglio essere comandati.

Non si può pretendere di trovare una dimostrazione sicura ed impeccabile di questa interpretazione, i frammenti sono veramente rari. Ma notevoli tracce, sufficienti per evidenziare queste tre ripartizioni, si sono conservate.

Il già citato fr. 267 sintetizza la posizione che riguarda il sapiente: “il comandare spetta per natura al migliore”, dunque c’è chi nasce destinato al comando. Poi il fr. 75 parla dello stolto: “meglio è, per gli stolti, essere comandati che comandare”; infine per quanto concerne il buon cittadino Democrito osserva: “è duro essere comandato da chi è da meno” (fr. 49).

Nel campo dell’etica, Democrito non ignora quale importante fattore sia la volontà dell’uomo e come sia necessario che quest’ultimo voglia essere giusto affinché possa diventare tale.

In questo si spiega, e perciò si elimina, ogni contrasto e contraddizione tra le differenti affermazioni del filosofo il cui ideale di vita potrà benissimo definirsi un individualismo, purché si tenga presente che tale individualismo è fondato sul riconoscimento di un sentimento di solidarietà, che deve legare tutti gli uomini, e che, s’intende, è dal filosofo postulato.

Per l’Abderita il comportamento umano era quindi la conseguenza diretta e necessaria di leggi che la natura imponeva agli uomini, ovvero l’uomo poteva essere e diventare ciò che la stessa natura delle cose gli consentiva di essere e diventare. Il concetto di libertà umana viene dunque molto ridimensionato. Il razionalismo etico di Democrito aveva come concetto guida il raggiungimento dell’εθυμία , la buona anima, la tranquillità e serenità dell’animo.

Vero saggio era colui che rifuggiva i turbamenti e le passioni, improntando la sua vita su equilibrio, regolatezza, saggia moderazione ed accorta misura.

A renderci certamente una sintesi dell’etica democritea è il frammento 191: “La buona disposizione dell’animo si ingenera, negli uomini, dalla misura imposta al godimento e dall’armonia di vita: l’eccesso e il difetto, invece, amano l’instabilità e inducono grandi turbamenti nell’anima. Le anime perturbate dall’alterno prevalere di stati fra loro grandemente opposti non possono essere né equilibrate e stabili né ben disposte. Pertanto si deve indirizzare la propria attenzione alle cose possibili e ci si deve accontentare di ciò che è alla nostra portata, dandosi poco pensiero per gli uomini che vengono invidiati e ammirati e tanto meno ossessionandosi per la loro condizione. Al contrario, si deve osservare la vita di chi è afflitto da tribolazioni, riflettendo su ciò che questi patisce in forte misura, in modo che ti sembrino grandi e invidiabili le cose che sono alla tua portata e che possiedi e in modo che non ti accada di soffrire nell’anima, desiderandone di ulteriori. Infatti, chi ammira i facoltosi e le persone ritenute felici da altri uomini e si dà costantemente pensiero per loro sarà necessariamente spinto a intraprendere imprese sempre nuove, non escluso l’essere indotti dal desiderio a compiere azioni irreparabili e vietate dalla legge. Allora è opportuno non bramare di conseguire qualunque cosa, bensì ben disporsi nell’animo accontentandosi di ciò che si possiede, confrontando la propria vita con quella di chi ha una sorte peggiore, ritenendosi felici in rapporto ai patimenti sofferti da costoro e constatando quanto sia migliore la vita con animo disposto in modo ancor più buono e respingerai con poche cause i rovina della vita, quali l’invidia, la malevolenza, e l’animosità”.

Questa lunga citazione delinea quasi interamente il pensiero etico del filosofo: vi è il principio della misura, il perseguimento della prudenza e della temperanza ad evitare turbamenti eccessivi, l’idea di coltivare quanto risulti alla propria portata, senza inseguire in maniera velleitaria successo e gloria, l’astensione dall’invidia, il controllo dell’ambizione che potrebbe condurre a imprese negative o dannose e infine confrontare la propria esistenza con chi ne trascorre una più difficile, incorniciando in maniera esemplare una ricca e densa riflessione sulla natura e sull’uomo.

Inoltre l’ideale dell’εθυμία si raggiunge negando i beni materiali: “la felicità non sta né negli armenti né nell’oro” (fr. 171), perché Democrito sa che “all’anima appartiene la felicità e l’infelicità” (fr. 170). Da ciò può osservare che: “chi sceglie i beni dell’anima sceglie quelli più divini, chi sceglie quelli del corpo sceglie beni umani” (fr. 37).

Il filosofo tuttavia non condanna chi limita la propria meta alla stretta cerchia umana, pur constatando, naturalmente, che “né il corpo né le ricchezze procurano all’uomo la felicità, ma la rettitudine e l’avvedutezza” (fr. 40).

È un individualismo particolare quello di Democrito, perché abbraccia in ogni caso tutta l’umanità, essendo cosciente che ciascuno, col realizzare in sé l’ideale dell’eutimia, coopera indirettamente alla felicità di tutti in generale e nello stesso tempo influisca sull’educazione degli uomini. Di qui il cosmopolitismo, ovvero il sapiente che riconosce il sapiente al di sopra e al di fuori di tutte le frontiere materiali, nel comune ideale dell’eutimia appunto, quell’ideale che Democrito limitò al saggio. Sono innegabili, in lui, gli influssi del pensiero sofistico nel senso che, se Democrito fosse fiorito prima, difficilmente si spiegherebbe il suo, seppur limitato, interesse per la politica. Tuttavia egli afferma energicamente il valore dell’individuo come qualcosa che non debba essere annullato nella più larga cerchia dello Stato.

Il filosofo d’Abdera illustra dunque un’etica con i suoi processi percettivi, dimostrando una continuità tra la teoria atomistica e la sua concezione morale. Il frammento 34 ci ricorda che l’uomo è un microcosmo, un insieme di atomi e vuoti, e il suo destino è lo stesso del cosmo a cui appartiene. Fine dell’uomo è il mantenimento dell’equilibrio, cioè, la serenità dell’animo. Le sue teorie degli atomi liberi di muoversi nel vuoto si conciliavano perfettamente con il suo discorso etico.

Indispensabile risulta quindi un’attenta analisi ermeneutica dei testi e delle trattazioni Pre-socratiche, che iniziano a formulare le prime ricerche, interrogazioni e introduzioni all’etica e alla morale introducendone teorie e, appunto, interpretazioni.

BIBLIOGRAFIA

 

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Theodor Gomperz, Pensatori greci, vol.I, La Nuova Italia, Firenze 1950.

E.Zeller - R.Mondolfo, La filosofia dei greci, La Nuova Italia 1969.

F.Enriquez – M.Mazziotti, Le dottrine di Democrito d’Abdera, Bologna, Il Mulino 1948.

M.M. Sassi, La teoria della percezione in Democrito, Firenze, La nuova Italia, 1978.

F.Trabattoni, La filosofia antica, Roma, Carocci 2003.

I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956).

V.E. Alfieri, Gli atomisti: frammenti e testimonianze, Roma-Bari, Laterza, 1936.

Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2005.

G. Reale, Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate, I° volume, Vita e pensiero, Milano 1982.

 

 NOTE:

 

1 I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956), cit., [68, A, 35].

2 Cfr. ivi, cit., [68, A, 38].

3 Cfr. I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956), cit., [68, A, 49].

4 Cfr. ivi, cit., [68, A, 51].

5 I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956), cit., [68, B, 49].

6 Cfr. ivi, cit., [68, B, 233].

7 Cfr. sempre I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956).

8 In tal senso si legga anche il fr. 191 citato più avanti.

9 I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956), cit., [68, B, 247].

10 Cfr. ivi, cit., [68, B, 248].

11 Cfr. ivi, cit., [68, B, 3].

12 Cfr. ivi, cit., [68, B, 4].

13 Cfr. I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, Milano 2006 (traduzione italiana di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1956), cit., [68, B, 30].

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